martedì 4 novembre 2014
giovedì 21 agosto 2014
148- Io(1) Chi sono "io"? Non lo so: so di non saperlo e di non poterlo sapere. Il primo alito di vita, circa 3,5 miliardi di anni fa era LUCA (Last Universal Common Ancestor, l'ultimo antenato universale in comune, dicono i biologi) la prima cellula vivente, probabilmente un virus. Oggi io sono l'insieme di circa un milione di miliardi di cellule, che hanno deciso da ben 72 anni di collaborare fra loro e formare "io". Ma non sono "io" a governarle. Settantadue anni fa i miei genitori mi hanno allevato, sono cresciuto grazie a questo. Ma tutti i processi che fanno collaborare le mie cellule non sono decisi da me. "Io" sono solo un frutto di queste cellule collaboranti. E un giorno, non si sa perchè, non ce la faranno più a collaborare. Ogni cellula andrà per proprio conto, si dividerà in atomi, negli elementi della tavola di Mendeleev. Atomi che rientreranno nel ciclo della vita per formare altro: aria, terra, vegetali, animali, persone, ecc. E non so perchè. Di fronte a tutto ciò solo il silenzio ha senso per me. "Io" so che non so.
mercoledì 20 agosto 2014
147- Le favole(11) Galois, Godel, Bateson: sappiamo oggi le potenzialità e i limiti della nostra mente. Sappiamo che oltre i limiti della ragione c'è il vuoto. Un vuoto che è difficile accettare. Ne sono la prova tutte le "favole" che l'umanità, nella sua storia, ha creato: animismi, politeismi, monoteismi, ateismi, agnosticismi, ecc. Il "so che non so" di Socrate è proprio difficile da accettare!
venerdì 23 maggio 2014


giovedì 24 aprile 2014

domenica 20 aprile 2014

sabato 19 aprile 2014

sabato 15 marzo 2014
giovedì 6 marzo 2014
sabato 15 febbraio 2014
lunedì 3 febbraio 2014
138- La mia strada(2) Splendide figurine! Calciatori! Emozioni colorate! Blu, rosso, giallo, viola...Un mondo di sogni a 10 anni. Guadagnate, vinte, perdute, premurosamente appoggiandole ad un muro. Le lascio, volano, su, giù, ancora su, l'aria le trasporta ed eccole appoggiarsi dolcemente...a terra? sopra un'altra figurina? sì! ho vinto! 1952: non posso sapere cos'è il calcio, ma l'atmosfera, l'ambiente sociale gli dà valore.E così io vivo inconsapevole il piacere di quei francobolli (un po' più grandi) di carta, di volti, di mezzi busti arcobaleno.
Mia madre che chiama uno di noi otto (allora ancora sette) e sbaglia nome (siamo troppi!). Allora fa l'elenco, cominciando dal primo: Gian Luigi! Eugenio! Adriano! Aldo! Ines! Mariarosa! Roberto! Poi arriverà Leandro. Ma io sono il primo e con me non c'è bisogno del papier, dell'elenco. A questa voce ho imparato fin da piccolissimo a fare mille cose. Che mi sono rimaste dentro, nei muscoli, nelle ossa. Nella testa. Facendomi pronto a mille forme, a mille gesti, a mille compiti. In modo fluido, naturale, anche nel dolore.
Ragazzino di otto, dieci anni. Il pozzo là nell'orto. L'acqua fresca. La carrucola per issarla a bordo. Con Valerio che un giorno viene trascinato giù nel fondo e miracolosamente si salva. Un bel pozzo, mitico, antico. Il rumore familiare della catena che si arrotola, dolce. Riempio il mio secchio. Che dolore al braccio, ma salgo al secondo piano. Mi sembra ogni volta di svenire, giorno dopo giorno resisto. Settimane, mesi, anni. Un giorno il municipio fa apparire una fontanella in fondo, all'inizio del viottolo che conduce verso casa. Quelle pesanti, di ghisa. Così almeno ricordo. Pesanti per me, che ora devo portare il secchio di lamiera zincata (ora lo so, e c'è ancora quel secchio). Lo porto per più di 200 metri, tale è la distanza da casa. Pesante per le mie braccia di ragazzino. Braccio destro. Sosta. Respiro. Braccio sinistro. Sosta. Smorfia di sofferenza infantile. Respiro. Braccio destro. Il caro, vecchio, tenero pozzo, con la sua acqua freschissima, ora va dismesso. Mi dispiacerà, stranamente, teneramente. Verso il 1952 inizia il mio cammino inconsapevole verso la modernità. Verso la felicità? No! La mia felicità dipenderà da ben altro. Arriverà l'acqua corrente in casa, e poi tutte le altre comodità. Una vita più soft, più comoda, senza più smorfie di dolore alle braccia. Più comoda, sempre felice, ma per altre luminosità, non per le comodità. Così io sento e credo. Anche oggi, a 72 anni...
Le mie figurine! "Gian Luigi, è maggio, è il mese della Madonna. Il mese dei fioretti." Mi obbligano ad un fioretto che non capisco: immolare alla Madonna le mie figurine. Mia madre. Perchè? Lacrime amare, salate, senza fine, mentre le fiamme della cucina economica si dipingno dell'arcobaleno di colori di quei calciatori. Cenere, come il mercoledì delle ceneri. Pulvis eris et in pulverem reverteris. Eri terra impastata e terra ritornerai. Dolore, non senso, a 10 come a 72 anni. Disperazione allora, serenità dolorosa adesso. La serenità di accettare ciò che non posso capire e non posso cambiare.
Un salto e vedo gli anni '70. Milano. Il "compagno" Zibecchi viene schiacciato da un mezzo della Celere. Sì, era la Celere a scandire i ritmi dei nostri cortei. Cantiamo: "compagno Zibecchi sarai vendicato dalla giustizia del proletariato..". Il proletario laureato esprime così la rabbia e la speranza. Con l'eskimo verde speranza. La speranza nella partecipazione. "La libertà non è star sopra un albero...la libertà è partecipazione." Vado allora in Comune e il proletario laureato dichiara il falso: "Titolo di studio?" "Scuola media" E così ottengo il libretto di lavoro che mi consente, per alcuni anni, l'esperienza come operaio. Bracciante agricolo. Operaio in un mulino. Operaio esterno alla Falck per demolire i mattoni refrattari degli altiforni. Operaio in un'azienda che coltiva funghi. La fatica fisica. Lavorare, mangiare, dormire. Per lavorare, mangiare, dormire. Sporco di terra, di farina, di sudore, di letame. Ho vissuto il mondo degli ultimi. Come mio padre. Avevo 3 o 4 anni e mio padre, operaio, ogni domenica pomeriggio faceva 70 km in bicicletta per andare a lavorare a Milano. Ogni sabato pomeriggio tornava a casa in bicicletta. Fatica, e solo una notte con mia madre e solo mezza giornata con noi, a casa. Ogni tanto sul portapacchi un involucro con del taleggio che aveva rimediato in qualche casolare di pianura, lungo la strada. Povertà. Nebbia. Gelo. Caldo. Pendolare. Fatica. C'è l'armistizio e i Tedeschi fuggono dando tremendi colpi di coda. Il Messina è braccato e arriva a casa nostra. In solaio le fascine lo coprono, lo sommergono, lo nascondono. Potevamo tutti essere bruciati per questo. Ma non lo scoprono. La sua casa sarà traforata dai proiettili da sembrare uno scolpasta. Ma non lo trovano. Ansia, paua, tremore. Sollievo duro e pensoso.
Ogni giorno mia madre ci fa recitare: "Signur, al papà faga troà ol laurà apref a cà", il lavoro vicino a casa! imploravamo pregando. Ecco arrivare il giorno di gioia e mio padre è assunto al Cristini, un feltrificio a duecento metri da casa! Sono un bambino e alle 12 gli porto la "schiscèta" col pranzo. Mio padre è là, in una buca dove si apre la bocca della caldaia che manda vapore caldo in tutto il feltrificio. Va a carbone. Mio padre è nero come un minatore. E' piccolo, magro, sorridente, non mostra la fatica. E' vicino a casa e ogni sera è con noi. Questo gli basta. Mio padre. Diploma di sconda elementare. Laurea in operosità. Master in fatica dura. Per vivere e farci vivere.
Ho 5 anni o forse otto. Chiedo a mia madre: "Come nascono i bambini?" "Lo saprai quando sarai grande". Un'occasione perduta da mia madre. E da me. Inconsapevoli del valore di vicinanza contenuto in quella domanda e del potere deflagrante contenuto in quella risposta! Non ho più chiesto. Non c'è più stata intimità profonda. Ognuno per la propria strada. Tenendoci a vista con affetto, ma senza il sapore dolce dell'intimità.
Ho 16 anni. Al Carrobiolo di Monza. Voglio diventare Barnabita. Io bimbo sognavo di diventare Papa. Mi sono messo su quella strada con l'impegno di un bambino:"Un giorno scoprirò, seduto ad un tavolo con i grandi della Chiesa, dov'è il trucco". Me lo dicevo sentendo nel mio cuore di bambino che qualcosa non tornava fra quello che il parroco diceva e quello che vedevo nel piccolo ambiente del mio pase. Troppa distanza sentivo fra parole e vita osservata. A 16 anni il noviziato. E il padre maestro che di sua iniziativa mi parla di chiave e di serratura dove la chiave è introdotta: maschio e femmina. 16 anni! Una liberazione! Dentro di me, d'improvviso, mi sento leggero, libero, felice. Volo in cortile a tre gradini alla volta: mi sento volare leggero. Il segreto dela vita.
Non potrò più fare a meno di quella leggerezza. E a 22 anni, dopo il baccellierato in Sacra Scrittura e Storia della Chiesa presso l'Università di Propaganda Fidae decido. Mi inginocchio davanti al Padre Generale: "Non riesco a seguire queste regole. Lascio" "Fai quello che puoi, ma resta." Ecco il trucco che avevo fantasticato da bambino: fai quello che puoi, e se non ce la fai a sublimare trovati uno sfogo, ma resta. No, lascio. Da allora ho riacciuffato la leggerezza, il volo vissuti a 16 anni. Hanno acompagnato da allora tutta la mia vita, come un filo prezioso che ha dato senso a gioie e dolori. L'intesa profonda che cercavo a 5 anni, il disvelamento a 16 anni, la libertà, a 22 anni, di cercare la mia strada, tutto "intero", finalmente, testa, cuore, sessualità. 72 anni: guardo indietro e mi dico "ce l'ho fatta!" E finchè avrò energie so che potrò continuare a lavorarci, per continuare a raccogliere una vita "intera". Io. E accanto Marilù.
Mia madre che chiama uno di noi otto (allora ancora sette) e sbaglia nome (siamo troppi!). Allora fa l'elenco, cominciando dal primo: Gian Luigi! Eugenio! Adriano! Aldo! Ines! Mariarosa! Roberto! Poi arriverà Leandro. Ma io sono il primo e con me non c'è bisogno del papier, dell'elenco. A questa voce ho imparato fin da piccolissimo a fare mille cose. Che mi sono rimaste dentro, nei muscoli, nelle ossa. Nella testa. Facendomi pronto a mille forme, a mille gesti, a mille compiti. In modo fluido, naturale, anche nel dolore.
Ragazzino di otto, dieci anni. Il pozzo là nell'orto. L'acqua fresca. La carrucola per issarla a bordo. Con Valerio che un giorno viene trascinato giù nel fondo e miracolosamente si salva. Un bel pozzo, mitico, antico. Il rumore familiare della catena che si arrotola, dolce. Riempio il mio secchio. Che dolore al braccio, ma salgo al secondo piano. Mi sembra ogni volta di svenire, giorno dopo giorno resisto. Settimane, mesi, anni. Un giorno il municipio fa apparire una fontanella in fondo, all'inizio del viottolo che conduce verso casa. Quelle pesanti, di ghisa. Così almeno ricordo. Pesanti per me, che ora devo portare il secchio di lamiera zincata (ora lo so, e c'è ancora quel secchio). Lo porto per più di 200 metri, tale è la distanza da casa. Pesante per le mie braccia di ragazzino. Braccio destro. Sosta. Respiro. Braccio sinistro. Sosta. Smorfia di sofferenza infantile. Respiro. Braccio destro. Il caro, vecchio, tenero pozzo, con la sua acqua freschissima, ora va dismesso. Mi dispiacerà, stranamente, teneramente. Verso il 1952 inizia il mio cammino inconsapevole verso la modernità. Verso la felicità? No! La mia felicità dipenderà da ben altro. Arriverà l'acqua corrente in casa, e poi tutte le altre comodità. Una vita più soft, più comoda, senza più smorfie di dolore alle braccia. Più comoda, sempre felice, ma per altre luminosità, non per le comodità. Così io sento e credo. Anche oggi, a 72 anni...

Un salto e vedo gli anni '70. Milano. Il "compagno" Zibecchi viene schiacciato da un mezzo della Celere. Sì, era la Celere a scandire i ritmi dei nostri cortei. Cantiamo: "compagno Zibecchi sarai vendicato dalla giustizia del proletariato..". Il proletario laureato esprime così la rabbia e la speranza. Con l'eskimo verde speranza. La speranza nella partecipazione. "La libertà non è star sopra un albero...la libertà è partecipazione." Vado allora in Comune e il proletario laureato dichiara il falso: "Titolo di studio?" "Scuola media" E così ottengo il libretto di lavoro che mi consente, per alcuni anni, l'esperienza come operaio. Bracciante agricolo. Operaio in un mulino. Operaio esterno alla Falck per demolire i mattoni refrattari degli altiforni. Operaio in un'azienda che coltiva funghi. La fatica fisica. Lavorare, mangiare, dormire. Per lavorare, mangiare, dormire. Sporco di terra, di farina, di sudore, di letame. Ho vissuto il mondo degli ultimi. Come mio padre. Avevo 3 o 4 anni e mio padre, operaio, ogni domenica pomeriggio faceva 70 km in bicicletta per andare a lavorare a Milano. Ogni sabato pomeriggio tornava a casa in bicicletta. Fatica, e solo una notte con mia madre e solo mezza giornata con noi, a casa. Ogni tanto sul portapacchi un involucro con del taleggio che aveva rimediato in qualche casolare di pianura, lungo la strada. Povertà. Nebbia. Gelo. Caldo. Pendolare. Fatica. C'è l'armistizio e i Tedeschi fuggono dando tremendi colpi di coda. Il Messina è braccato e arriva a casa nostra. In solaio le fascine lo coprono, lo sommergono, lo nascondono. Potevamo tutti essere bruciati per questo. Ma non lo scoprono. La sua casa sarà traforata dai proiettili da sembrare uno scolpasta. Ma non lo trovano. Ansia, paua, tremore. Sollievo duro e pensoso.
Ogni giorno mia madre ci fa recitare: "Signur, al papà faga troà ol laurà apref a cà", il lavoro vicino a casa! imploravamo pregando. Ecco arrivare il giorno di gioia e mio padre è assunto al Cristini, un feltrificio a duecento metri da casa! Sono un bambino e alle 12 gli porto la "schiscèta" col pranzo. Mio padre è là, in una buca dove si apre la bocca della caldaia che manda vapore caldo in tutto il feltrificio. Va a carbone. Mio padre è nero come un minatore. E' piccolo, magro, sorridente, non mostra la fatica. E' vicino a casa e ogni sera è con noi. Questo gli basta. Mio padre. Diploma di sconda elementare. Laurea in operosità. Master in fatica dura. Per vivere e farci vivere.
Ho 5 anni o forse otto. Chiedo a mia madre: "Come nascono i bambini?" "Lo saprai quando sarai grande". Un'occasione perduta da mia madre. E da me. Inconsapevoli del valore di vicinanza contenuto in quella domanda e del potere deflagrante contenuto in quella risposta! Non ho più chiesto. Non c'è più stata intimità profonda. Ognuno per la propria strada. Tenendoci a vista con affetto, ma senza il sapore dolce dell'intimità.
Ho 16 anni. Al Carrobiolo di Monza. Voglio diventare Barnabita. Io bimbo sognavo di diventare Papa. Mi sono messo su quella strada con l'impegno di un bambino:"Un giorno scoprirò, seduto ad un tavolo con i grandi della Chiesa, dov'è il trucco". Me lo dicevo sentendo nel mio cuore di bambino che qualcosa non tornava fra quello che il parroco diceva e quello che vedevo nel piccolo ambiente del mio pase. Troppa distanza sentivo fra parole e vita osservata. A 16 anni il noviziato. E il padre maestro che di sua iniziativa mi parla di chiave e di serratura dove la chiave è introdotta: maschio e femmina. 16 anni! Una liberazione! Dentro di me, d'improvviso, mi sento leggero, libero, felice. Volo in cortile a tre gradini alla volta: mi sento volare leggero. Il segreto dela vita.
Non potrò più fare a meno di quella leggerezza. E a 22 anni, dopo il baccellierato in Sacra Scrittura e Storia della Chiesa presso l'Università di Propaganda Fidae decido. Mi inginocchio davanti al Padre Generale: "Non riesco a seguire queste regole. Lascio" "Fai quello che puoi, ma resta." Ecco il trucco che avevo fantasticato da bambino: fai quello che puoi, e se non ce la fai a sublimare trovati uno sfogo, ma resta. No, lascio. Da allora ho riacciuffato la leggerezza, il volo vissuti a 16 anni. Hanno acompagnato da allora tutta la mia vita, come un filo prezioso che ha dato senso a gioie e dolori. L'intesa profonda che cercavo a 5 anni, il disvelamento a 16 anni, la libertà, a 22 anni, di cercare la mia strada, tutto "intero", finalmente, testa, cuore, sessualità. 72 anni: guardo indietro e mi dico "ce l'ho fatta!" E finchè avrò energie so che potrò continuare a lavorarci, per continuare a raccogliere una vita "intera". Io. E accanto Marilù.
sabato 1 febbraio 2014
137- Le canzoni che amo(1)
Immagina non esista paradiso
È facile se provi
Nessun inferno sotto noi
Sopra solo cielo
Immagina che tutta la gente
Viva solo per l’oggi
Immagina non ci siano nazioni
Non è difficile da fare
Niente per cui uccidere e morire
E nessuna religione
Immagina tutta la gente
Che vive in pace
Puoi dire che sono un sognatore
Ma non sono il solo
Spero che ti unirai a noi anche tu un giorno
E il mondo vivrà in armonia
Immagina un mondo senza la proprietà
Mi chiedo se ci riesci
Senza bisogno di avidità o fame
Una fratellanza tra gli uomini
Immagina tutta le gente
Che condivide il mondo
Puoi dire che sono un sognatore
Ma non sono il solo
Spero che ti unirai a noi anche tu un giorno
E il mondo vivrà in armonia
mercoledì 29 gennaio 2014
136- Fine vita (1) Giorni fa ero con un amico. Gli arriva una telefonata: una persona cara è morta, quasi centenaria, in coma da qualche tempo. L'amico piange. Accolgo in silenzio il suo pianto. Dopo un po' gli chiedo in che cosa credeva la persona cara, quale era la "favola" che aveva abbracciato. Era cattolico. Quindi è in paradiso, è tornato nella casa del Padre. Esprimo allora dolcemente la mia comprensione, ma assieme anche la mia meraviglia ogni volta che ad un funerale osservo i cattolici piangere. Ricordo la frase del salmo 122: "laetatus sum in his, quae dicta sunt mihi: in domum domini ibimus (quale gioia quando mi dissero andremo alla casa del Signore)". Dunque è anche festa! Io non sono cattolico, la mia "favola" è tutta dentro la natura, la nostra madre terra, e mi piace pensare che quando i 100 trilioni di cellule che mi formano non ce la faranno più a collaborare fra loro, tornino velocemente, con la cremazione, al mare, alla terra, nell'aria. E mi piace immaginare che chi mi sarà vicino suoni la primavera di Vivaldi, un canto alla continua trasformazione della vita. A questo punto il mio amico sorride. Piange, ma sorride.
sabato 11 gennaio 2014

sabato 4 gennaio 2014

La persona religiosa può svegliarsi ogni mattina e volgere il pensiero, le emozioni all'essere superiore che ha scelto, sentirne la forza, la potenza, l'amore e pregare per i non religiosi e/o combatterli.
La persona atea può svegliarsi ogni mattina e pensare a come imprimere la propria impronta personale nella giornata, nella vita, nel mondo, pensandosi padrone di se stesso. Nel rapporto coi religiosi alle volte pensa come fare a mostrare loro l'inconsistenza del loro fondamento e/o combatterli.
L'agnostico si sveglia ogni mattina cercando di rapportarsi ad un mondo misterioso di cui sente di essere parte, accettando le incertezze del non saper rispondere alle domande fondamentali: cos'è la vita? perchè la vita? Osserva religiosi e atei e si chiede perchè credano senza prove, e non ha risposte. Si rapporta a loro sentendosi e dicendosi incompetente circa le loro scelte, desideroso solo di un contatto umano.
Il religioso guarda gli altri in modo indiretto, attraverso l'essere superiore, di cui pensa che tutti siano figli.
L'ateo guarda gli altri in modo diretto, come esseri che con i mezzi a loro disposizione cercano una strada di espressività e di sviluppo personale.
L'agnostico guarda gli altri in modo diretto, come persone di uguale dignità, che in modo misterioso cercano di dare un senso personale all'esistere, al vivere, alle relazioni.
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